APPESI AD UN FILO
- Enrico Avagliano
- 23 mag 2024
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 14 giu
Testo e foto di Cristian Magnani

Il cavedano non gode della reputazione di pesce combattivo, a differenza di altri pesci come il barbo o il luccio, solo per citare i primi due che mi vengono in mente. Perfino la trota è, vox populi, ritenuta un avversario più impegnativo. Che pesciaccio il cavedano.... “basta fargli prendere una boccata d'aria e perde tutte le forze”, si dice. Ma sarà vero?
Tutti i pesci, nella disperata lotta per contrastare quella forza invisibile che cerca di strapparli al loro ambiente naturale, mettono in campo le doti migliori che la natura gli ha donato: il barbo, il “verde bue delle correnti” come lo definiva Rodolfo Pagnini, da grande nuotatore qual è, punta tutto sulla forza poderosa dei suoi muscoli, abituati a vincere le correnti più impetuose. Cerca il vivo della corrente, risalendo addirittura il fiume, quando addirittura non parte verso la propria tana come un bufalo imbizzarrito. La trota, che può avere dalla sua un peso rilevante, salta fuori dall'acqua, producendosi in tuffi e piroette per liberarsi dall'amo, così come il persico trota, il quale cerca di mettere a vantaggio la conformazione della sua enorme bocca a fisarmonica per slamarsi.
Il cavedano, che raramente supera i due kili di peso ( al netto delle frequenti generose misurazioni a occhio), una volta punto dall'amo, nel tentativo di liberarsi e riguadagnare la libertà, impiega la dote che madre natura gli ha donato in maniera più cospicua, ovvero l'intelligenza. Non disponendo della forza del barbo o della mole del luccio,

il cavedano reagisce alla ferrata cercando di sfruttare ogni opportunità che il fiume gli concede, sia essa la forza della corrente, una pietra, un ramo sommerso o un ciuffo d'erba, ostacoli verso i quali cerca immancabilmente di portarsi per rompere il sottile terminale che lo trattiene.
Eh sì, perché se non fate parte di quel ristretto club di pescatori che prendono cavedani su cavedani senza scendere sotto lo 0,14 di finale ( beninteso a detta loro…), se siete dunque un comune mortale e vi trovate regolarmente a litigare con i pesci dagli occhi gialli con un finale dello 0,08 e un amo del 25 (quando và bene), allora converrete con me che portare a guadino un grosso cavedano non è per nulla scontato e anzi, prima che quella grossa bocca cavernosa arrivi in superficie, ci si ritrova a lottare sul filo del rasoio, col cuore in gola, sperando che quel finale infinitesimale regga e quell'amo microscopico non si sganci. E tante volte questo non accade, basta un nulla e il pesce strappa il teminale o si slama. Una imprecazione echeggia nel silenzio del bosco, si rilega l'ennesimo finale e si ricomincia da capo la sfida con quei furboni di tre cotte, spesso difficili da convincere a mangiare ma sempre poco propensi a farsi condurre a guadino, in quella lotta fatta di sensibilità e opportunismo che servono a salpare pesci con un nylon dal carico di rottura di pochi etti e un amo quasi impossibile perfino da legare.
Sui vari social, di quando in quando, mi è capitato di imbattermi in pescatori che denigrano chi pesca con terminali sottili, quasi fosse, la pratica di pescare con un finale esile, una forma di snobbismo più che una effettiva necessità.

Addirittura, si sostiene che pescare con un terminale sottile sarebbe dannoso perché si stresserebbe inutilmente il pesce, come se questo godesse ad essere strattonato fuori dall'acqua con un cavetto d'acciaio. Per non parlare degli ami (barbless) inutilmente lasciati in bocca ai pesci.
A me non piace perdere un pesce allamato, pescherei volentieri con uno 0,14, ma non vado a pescare per trovare conferma alle mie teorie o a estemporanee prese di posizione. Vado a pesca per una lunga serie di motivi, il più importante dei quali è quel momento catartico in cui l'antenna gialla del mio galleggiante scompare improvvisamente sott'acqua, ferro d'istinto e sento che laggiù, dall'altro capo della lenza, un pesce oppone resistenza. Questo è ciò che cerco, per i giorni che mi separano dalla prossima uscita, per i kilometri che mi separano dal fiume, per le infinite ore in piedi a gambe in acqua, per le migliaia di passate ripetute ossessivamente, cercando di penetrare quel mondo misterioso che si cela dall'altra parte della superficie del fiume. E in quelle ore passate a provare e riprovare mille cose diverse fino a trovare la soluzione, se un finale più sottile o un amo più piccolo sono un modo di avere un'abboccata, non ho remore ad usarli. Sono lì per quello. Non per dire “ oggi non c'è verso, non mangiano” chiudere la canna e andarsene.
E' chiaro che in un grande fiume, veloce e magari anche profondo, mettere un terminale dello 0,07 è del tutto inutile perché un bel pesce me lo “fumerebbe” con due testate. Ma è altrettanto vero che nell'acqua cristallina di un corso collinare, o si usa ciò che serve, magari uno 0,06 o uno 0,07, oppure, spesso, si guardano i pesci mangiare i nostri bachi.
Una cosa però è vera: portare a guadino un grosso cavedano con un terminale sottile non è cosa da tutti. Serve una mano educata da ore e ore di pesca, serve pazienza, serve conoscenza del modo di lottare dei nostri avversari, servono attrezzature adatte, scelte anche passando prove ed errori. Non tutti ne hanno la capacità, la voglia o magari il desiderio. Pescare i cavedani a passata non è elitario, tutt'altro direi, ma è una cosa che non si improvvisa. Per me è la vita, per altri magari una pesca mortalmente noiosa e sporca. Ognuno ha le proprie preferenze e inclinazioni: c'è chi è portato per la prosa e chi per la poesia, c'è il fabbro e c'è l'orefice. E c'è chi dice che l'uva è acerba perché non ci arriva.
Per chi, invece, pensa che prendere un cavedano a passata sia qualcosa che meriti una vita di applicazione e di dedizione, vorrei mettere nero su bianco alcune considerazioni opinioni, alcune convinzioni maturate tra innumerevoli slamate, strappate e qualche bel pesce portato a guadino.

Come lotta il cavedano?
Come già scritto sopra e come un tutti i pescatori a passata sanno, la difesa del cavedano punta tutto sull’opportunismo. Privo di forza bruta e poco propenso a saltare fuori dall'acqua ( a meno che non sia allamato fuori dalla bocca) il cavedano cerca di sganciarsi dall'amo prima di tutto scuotendo la testa, cosa che si traduce, inizialmente sulla canna e successivamente sulla mano del pescatore, in quelle inconfondibili testate che ti fanno capire, senza alcun dubbio, chi ci sia dall'altro capo della lenza. Se le testate non riescono nell'intento di liberarsi dall'amo o di spezzare il finale, ammortizzate dall'elasticità dalla canna e del nylon più che dalla frizione, allora il nostro amico prova a sfruttare tutte le opportunità che il fiume gli dà: in un grande fiume veloce proverà a prendere il vivo della corrente, userà il corpo come una vela per aumentare il proprio peso, ci prenderà metri e metri di filo finché la tensione non si allenterà quel tanto che serve a far sganciare l'amo. Se questa manovra non gli riesce e riusciamo a portarlo fuori dal flusso principale, proverà a infilarsi tra i gabbioni della sponda o nei filari di erbe, riuscendo spesso a salutarci proprio quando pensavamo che il più fosse fatto. Allo stesso modo, in un piccolo fiume, punterà deciso verso ogni ostacolo che il fiume gli presenti, sia questo un albero sommerso, una pietra o un ciuffo di alghe, che tenterà di raggiungere con ripetute puntate, per strisciarvi contro la lenza.

Portare a spasso il cane
Volendo fare un paragone, mi pare che contrastare la reazione di un bel cavedano allamato sia, in qualche modo, simile a portare al guinzaglio il proprio amico a 4 zampe. Così come un cane non può essere tenuto troppo a freno, per non strozzarlo, o lasciato troppo libero, perché non combini qualche marachella, un cavedano allamato va’ tenuto sempre sotto controllo, senza mai tenerlo troppo a freno, pena la inevitabile rottura del terminale. Né va lasciato troppo libero, cosa che si tradurrebbe immancabilmente in una slamata o che gli darebbe l'opportunità, subito colta, di raggiungere qualche ostacolo dove strisciare e strappare la lenza. Questo significa, all'atto pratico, che dovremo cercare di controllare il pesce tenendolo sempre frenato, senza mettere a rischio la tenuta del terminale, cercando di farlo stancare finché non avrà esaurito le sue energie e si lascerà condurre verso il guadino. Riuscire a tenerlo quanto più a lungo in una zona pulita e priva di ostacoli ci aiuterà anche a contrastare meglio gli ultimi tentativi che il pesce farà una volta portato sotto sponda. E' il classico caso dei pesci allamati pescando da una massicciata o da una sponda davanti alla quale ci siano fitti filari di alghe. In questo caso è senz'altro opportuno tenere il pesce il più possibile al largo, così che, quando lo porteremo verso riva, sarà quasi stremato e avremo buon gioco a fermare le sue puntate. Se questo non è possibile, perché tenerlo al largo significherebbe tenerlo nel vivo della corrente, dovremo recuperarlo con la canna verso monte, parallela alla riva. Con la canna tenuta in questo modo il pesce, quasi fosse la mina di un compasso, non appena metterà il muso verso di noi, si trovarà a tagliare la corrente verso la nostra sponda.

Nel caso in cui tenere la canna in questo modo non porti il risultato sperato non ci rimane che mettere la canna verso valle,
sempre parallela alla sponda. Questa operazione riesce quasi sempre a riportare il pesce sulla nostra sponda ma, inevitabilmente, parecchi metri verso valle. Se la corrente è forte e se non possiamo spostarci sull'argine, è una manovra da fare solo se non ci sono rimaste altre carte da giocare.
Negli ambienti ristretti di un fiume collinare, sia esso appenninico o prealpino, disporre di uno spazio dove giostrare e stancare senza rischi il cavedano allamato, è un lusso che raramente ci tocca.
Data la ristrettezza dei corsi d'acqua, i cavedani, appena ferrati, cercano immediatamente la sponda opposta con i sui ostacoli, quando non ci siano rami o rocce ancora più vicini alla linea di passata. Se osserviamo nell'acqua chiara il comportamento di un cavedano che stà puntando un ostacolo, lo vedremo puntare l'obiettivo con scatti ripetuti e non con una fuga precipitosa e continua, come farebbe una carpa. Questo comportamento va’ contrastato mettendo la canna di lato, bassa sull'acqua e se serve, perfino immergendo la vetta sotto la superficie. Mentre effettuiamo questa manovra dobbiamo in qualche modo escludere la frizione, cercando di concedere meno filo possibile. In genere questa manovra, che ha il vantaggio di esercitare una trazione verso il basso, riesce nell'intento di fermare il cavedano prima che raggiunga l'ostacolo sommerso che stava puntando ed evita la rottura del trerminale.

La trazione esercitata di lato, quanto più in basso possibile rispetto alla superficie dell'acqua, è molto più efficace della trazione verso l'alto, esercitata da una canna tenuta in verticale. Che questa maggiore efficacia sia dovuta al fatto che i pesci, non si sentendosi trascinati verso l'alto, siano meno spaventati dalla trazione della lenza, oppure semplicemente che una forza longitudinale incontri meno resistenza, non lo posso sapere. Posso solo fare delle ipotesi, che tuttavia hanno un'utilità pratica relativa. Ciò che conta è sapere cosa fare quando ferriamo un grosso pesce che reagisce con forza alla puntura dell'amo. Come in tanti altri aspetti della pesca, ci sono cose che non riusciamo a spiegare facilmente, o fino in fondo: anche nel modo di recuperare i pesci, ci sono dei “trucchetti” che sembrano contraddire qualsiasi logica ma che hanno la loro utilità pratica. Uno di questi, imparato dal compianto Gino Bandini, è quello di buttare la canna orizzontale all'indietro, sopra la testa, creando un angolo acuto con la lenza che, a prima vista, fa inorridire i più. Eppure quella trazione inusuale ha quasi sempre l'effetto di fermare le fughe del pesce. Un'altra furbizia imparata negli anni, è quella di arretrare di qualche passo verso la sponda, una volta agganciato un grosso pesce. Mantenere una distanza “ di sicurezza” dal pescatore, sembra mantenere più calmi i pesci, che spesso non puntano la sponda opposta come avrebbero fatto senza questa banale manovra.

Frizione o antiritorno?
Pescare grossi pesci con lenze dal carico di rottura nettamente inferiore al peso delle nostre prede, comporta inevitabilmente che queste non possano essere stancate semplicemente con l'azione ammortizzante della canna e del braccio, ma anche con l'aiuto di qualche forma di ausilio che rilasci filo prima che questo venga forzato oltre il punto di rottura. Questo aiuto puo essere rappresentato dalla frizione o dall'antiritorno. La frizione è quel fantastico meccanismo di cui sono dotati i nostri mulinelli che permette di cedere filo ogni qualvolta una fuga del pesce ne metta a rischio l'integrità. Questo meccanismo ha solo due svantaggi: il primo è che và settata dal pescatore e purtroppo la maggior parte delle persone, non la sa settare propriamente, pescando quasi sempre con il freno troppo aperto, cosa che lascia i pesci troppo liberi di fare ciò che vogliono. Questa consuetudine è favorita anche dall'esistenza di diversi mulinelli dotati di freno, che permettono al pescatore di pescare con la frizione più aperta del dovuto, escludendola parzialmente alla bisogna. La frizione andrebbe tarata in modo tale da dare filo solo un attimo prima che il terminale si spezzi ma che sia sufficientemente stretta da permettere di riavvolgere la lenza senza slittare. Questo insegnavano i nostri vecchi e se era valido allora, è valido anche oggi. Serve però fare qualche prova per acquisire la percezione dell'effettivo carico di rottura di un terminale integro, che è spesso molto più elevata di quanto non si pensi.

L'uso dell'antiritorno, importato nel nostro paese insieme alla pesca all'inglese, è un sistema estremamente pratico, che permette di dosare esattamente la quantità di lenza concessa al pesce che stiamo combattendo, sicuri di non cedere ulteriormente filo quando questo stia puntando un ostacolo. Questo rappresenta un indubbio vantaggio nei confronti della frizione, anche di quella meglio tarata, che deve essere in qualche modo esclusa fermando la lenza o la bobina con le dita, in caso sia necessario stoppare il pesce senza indugi. Alla fine, la scelta tra un sistema o l'altro, è più che altro un fatto di preferenze personali, ma và tenuto ben presente che l'uso della frizione non è banale e necessità di diverse prove e un certa attenzione.
Quando, nonostante tutte le cautele, il pesce riesce a riguadagnare la libertà, lo fa sempre per due motivi principali, ovvero per la rottura del terminale e per una slamata.
La Slamata:
Cosa sia la slamata è ovvio e presto detto: l'amo si sgancia, perdendo la presa ed il pesce riguadagna la liberta. Da che cosa questo dipenda è la vera vexata quaestio, che arrovella tutti i pescatori, soprattutto in quelle giornate nelle quali sembra di essere oggetto di una maledizione.

Generalizzando, fermo restando che la slamata è sempre dovuta alla perdita di presa dell'amo, credo si possa dire che il pesce si slama per tre cause principali, una legata all'amo, una al recupero ed una legata alla canna. L'amo può perdere la presa perché si apre o perché lacera il lembo di pelle che aveva pizzicato. Nel primo caso la colpa è senz'altro del pescatore, che sceglie un modello di forma, dimensioni e filo inadeguati alle sollecitazioni alle quali sarà sottoposto... facciamo l'esempio di un leggero amo dalla curva arrotondata e dal filo fine legato ad un filo non proprio sottilissimo per pescare con 8 grammi su 6 metri di fondo. Vedremo senz'altro tante mangiate ma molto difficilmente riusciremo a portare a guadino i pesci più grossi. Verrebbe da dire che anche usare un amo troppo piccolo possa essere causa di slamate: l'amo piccolo “pizzica” poco tessuto ed è facile che questo si laceri durante il recupero. Senonché, a volte un amo piccolo e una presentazione più “naturale” possono convincere il pesce a mangiare con più confidenza e produrre allamate più franche. Non ci sono verità assolute, solo considerazioni da tenere presenti mentre si fanno vari tentativi per uscire da una situazione difficile. La slamata può avvenire anche per cause non direttamente legate all'amo quanto, piuttosto, al modo in cui si recupera il pesce: è ovvio che recuperare un pesce in modo troppo blando è il miglior modo per perderlo, ma pure nel caso opposto, ovvero quando un pesce viene recuperato in maniera troppo sgarbata, perdere una cattura perché l'amo si sgancia è molto frequente.

Se il motivo per cui dobbiamo forzare il recupero è di evitare ostacoli subacquei o per fargli risalire la corrente, c'è poco da fare, se non, forse, provare ad aumentare la misura dell’amo. Se invece abbiamo un amo e un filo che ci concedono di tirare a frizione chiusa e il pesce si slama, possiamo solo inveire contro noi stessi....uno scatto di frizione non si nega a nessuno. E anche quando facciamo tutto nella maniera migliore, se ci troviamo obbligati a concedere troppo filo per la taglia eccessiva della nostra preda, con tutta probabilità la perderemo perchè la lenza inevitabilmente subirà un calo di tensione. L'unica cosa che possiamo fare, quando abbiamo molto filo fuori, è chiudere quasi del tutto la frizione e mettere la lenza in tiro: probabilmente strapperemo il finale ma quando un cavedano ( attenzione non una carpa o un barbo ma un cavedano) prende diverse decine di metri di lenza, a parer mio, è comunque destinato a non vedere il guadino. E quindi, tanto vale giocarsi l'unica chance, provando a fermarlo a costo di strapparlo. Recuperando il pesce, può capitare di slamarlo anche perché la lenza, comandata dalla canna, esercita una trazione con un angolo sfavorevole. Su questo aspetto possiamo fare ben poco, posto che generalmente tutti cerchiamo di esercitare una trazione contraria alla direzione del pesce. Tuttavia, quando il pesce è ancora fuori dalla nostra vista, può capitare che l'angolazione di recupero non sia la più favorevole e anzi, favorisca lo sganciamento dell'amo. Di mio, cerco, se possibile, di recuperare il pesce in modo che la lenza formi sempre un angolo acuto con la sua bocca, di modo che l'amo sia sempre forzato lungo il suo asse.

Dopodiché, finché il pesce non entra nel guadino, non sappiamo mai in che modo è stato agganciato e quindi, qui più che altrove, un po' di fortuna è quanto mai gradita. Da ultimo, parliamo delle slamate dovute ad alla canna, tasto dolente perché la canna può slamare sia perché troppo rigida come pure, all'apposto, perché troppo morbida. C'è anche chi ritiene che non esistano canne che slamano. Personalmente, sono del parere che una vetta rigida non si sposi bene con l'utilizzo di ami piccoli e che canne troppo morbide non siano l'ideale con correnti sostenute. Detto questo, ognuno ha la propria mano, il proprio modo di gestire i pesci allamati ed è oggetto di un giudizio personale e insindacabile, quale sia l'attrezzo più adatto alle proprie esigenze, agli spot che si frequentano, ai pesci che si insidiano, alle proprie abitudini.
La Strappata
La strappata, ovvero la rottura del terminale, è quell'accadimento mistico che avvicina l'uomo al creatore, portandolo a levare le braccia al cielo in un'ode, raramente muta, alle proprie divinità. Che dire della strappata dopo tutto quello detto sopra? Principalmente quello di usare materiali che si conoscono bene e dei quali si ha fiducia. Di curarne la conservazione, l'esecuzione dei nodi, di non essere pigri e di cambiare il terminale non solo dopo che si è portato a guadino un bel pesce, ma anche quando non si sia più certi della sua integrità, per qualsiasi motivo.

Ognuno ha la propria personale maniera di collegare il corpo di lenza al terminale, il proprio modo preferito di legare gli ami, i propri ami preferiti. Non starò qui a descrivere i vari nodi ed a confrontare i vari sistemi perché, di fondo, non esiste il terminale che non si rompe, il nodo che non salta. I pesci si perdono e si perderanno sempre, è nella natura di questo bellissimo gioco che è le pesca, che ci sa emozionare ogni volta. Viviamo per l'attimo in cui il nostro braccio scatta e sentiamo un grosso cavedano scuotersi violentemente in fondo alla lenza, per l'adrenalina che ci spinge il cuore in gola e per la tensione che si stempera quando il grosso pesce entra finalmente nel guadino. Queste emozioni, questa incertezza, sono ciò che ci spinge a tornare sul fiume ogni volta con rinnovato entusiasmo.