Ludopatia
- Enrico Avagliano
- 9 mag 2024
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 14 giu
Lei non saprà mai con quale punto l’ho sfidata a giocarsi 250 milioni, è l’unica condizione che le ho posto e mi sembra un dettaglio trascurabile…
Testo e foto di Massimo Zelli

Ogni volta che dovrei fare qualcosa di importante ma invece sono a pescare mi viene in mente Carlo Dalle Piane in quell’interpretazione magistrale di Regalo di Natale: l’avvocato. All’apparenza lo sprovveduto di turno, ma nella sostanza, l’incarnazione dell’acume intellettivo: capace di toccare l’unica corda che un malato del gioco ascolta, il piacere di giocare, soltanto per giocare.
Venticinque anni fa non avevo la licenza di pesca. I 14 anni erano dietro l’angolo ma aspettare Agosto era lunga e, senza il libretto blu della provincia di Rieti, una canna in mano vicino al fiume voleva dire essere fuori legge.
Il laghetto placava la fame ma era come levarsi la voglia di torta Sacher con del semolino in brodo. La voglia di fiume per altro, non era una sacher che al limite si comprava, era più come le carte per un ludopatico, una mania, un pensiero fisso. Profumava dell’alga asciugata sui sassi dopo la piena, aveva il gusto di una sigaretta fumata di straforo come “i grandi” e di mani sporcate con la torba dei vermi. Non mi sentivo me stesso in nessun modo maggiormente di quanto avevo una canna in mano, anche senza conoscere che una favilla minuscola della magia dell’acqua che corre, era peggio che ingozzarsi di cioccolata una volta scopertone il nascondiglio. Non basta mai.
Ricevevo tonnellate d’uova di cioccolata da genitori, zii, amici di famiglia, nonni.

Queste misteriosamente sparivano tranne riapparire poi, tristemente contingentate, per colazione o per merenda. Mia madre in questo era una diabolico enigmista. Il nascondiglio della cioccolata era quello che non t’aspettavi. Io per mia sfortuna non possedevo l’acutezza di una professoressa di matematica di lungo corso ma avevo occhi e orecchie buone. Bastava un indizio e al primo pomeriggio di solitudine, coadiuvato dal fedele complice, mio fratello, che faceva il palo per controllare l’eventuale prematuro rientro di mia madre, scovavo l’ambito nascondiglio… con conseguenti effetti gastrointestinali che prima o poi smascheravano l’infausto ritrovamento delle carte delle uova. Vuote.
Tornando al fiume, poco importava dover sopportare una paternale e qualche ceffone esplicativo a rinforzare il discorso. Se potevo andare, legavo la canna alla bicicletta e andavo lì dove non mi avrebbe trovato nessuno. Il guaio era quando s’accorgevano che ero andato al fiume (primo problema) con la canna (secondo) e avevo anche fumato (terzo). In quei frangenti la paternale si dilungava e gli aspetti esplicativi della faccenda erano ben sottolineati, per usare un eufemismo.
Quel giorno dovevo essere al campo sportivo. Il mercoledì non veniva mio padre a prendermi quindi marinare il calcio per una pescata era una faccenda tutt’altro che inaffrontabile. Il fiume era bello da togliere il fiato. Era una briglia che oggi è spesso piena di sassi e scorre a pari dell’alveo. Prima aveva un canale al centro che l’allargava formando un tratto largo 20 metri e profondo uno e mezzo. C’erano trote in prevalenza.

Non c’era una gran corrente, ma in quel momento, scegliere il galleggiante in ragione di quanto l’acqua corresse non era tra le cose che sapevo fare. Avevo un 4 grammi nella cassetta e mi sembrava adatto. Ci misi 5-6 pallini di quelli da inglese, che lo taravano a completezza e un finale agganciato ad una girella da circa un metro. Praticamente un insulto alla pesca, ma allora non lo sapevo… e forse nemmeno i pesci.
Una trota tirata con un filo del 16, le rare volte che s’attaccava era un avversario piuttosto modesto oltre che buono con le fettuccine di mia nonna. Sapevo però che c’erano pesci grossi e vecchi in quel posto, non li avevo mai presi ma visti soltanto sì.
Dopo un pomeriggio soleggiato, verso le 7 venne qualche nuvola. Poggiai la canna sulla forcella in legno e mi girai a controllare la bicicletta, giusto per capire quanto avrei impiegato in caso di pioggia ad andare al coperto. Sentii in modo distinto la canna cadere in acqua.
Mi girai prendendo il calcio in sughero oramai a mollo e … c’era. Altroché se c’era. La morbida inglese telescopica era piegata a U. L’avevo preso quel pesce che fino a quel momento avevo solo immaginato. Mentre la recuperavo pensavo tra me e me che avrei dovuto nasconderla da occhi indiscreti per portarla da mia nonna.
Il pesce fece 3 fughe poderose ma la frizione rispose bene.

Ero ancora padrone della situazione e non era poi molto più forte delle trote che catturavo in laghetto per grossa che fosse. Un rivolo di sudore scendeva sulla tempia. Certi pesci non capitano sempre, ma per me, preso in fiume era la prima volta.
Pensavo già a quanto avrei favoleggiato sulla fotografia da fare a quel pesce. Probabilmente era talmente bello che i miei avrebbero persino perdonato la marachella. Ce l’avevo già in tasca quella tacca sul calcio della canna.
Ero convinto di averla domata ma accadde qualcosa di inconsueto: il pesce si blocco. Non riuscivo più a recuperarlo. Forse si piantò sotto un masso, forse vicino un ramo, il fatto era che restò lì e a nulla valsero i tentativi di smuoverla. Dopo qualche tentativo sentii che era ancora attaccata, ma furono gli ultimi barlumi di speranza, prima di far tornare verso di me il mozzicone abraso del finale tagliato. Credo sia stata la prima volta in assoluto che persi una cattura che sentivo mia sopra ogni altra cosa. Fu in quell’istante che conobbi quel pesce che prima o poi tutti i pescatori incontrano, un pesce chiamato sconfitta.
Si può anche perdere
La lezione fu severa quanto efficacie. Mi arrabbiai parecchio quella volta, sbattei in acqua la canna col rischio di romperla. Avevo soltanto quella per altro. Ogni tanto mi viene in mente quel nodo alla gola che provavo. Succede quando perdo pesci che so per certo essere nobili, belli e difficili, oltre che rari a trovarsi.

Piacere, mi chiamo sconfitta, o quasi …
Pensavo a grandi linee a quell’episodio in quella mattinata nell’alto Serchio, qualche anno fa, dove il cuore era andato con la lancetta sul rosso più volte. Ci pensavo a quel nodo in gola ma il nodo non c’era. Al terzo pesce perso devi domandarti cosa sbagli più che incazzarti. E in fin dei conti, quella mattina potevo anche perdere, perché finalmente stavo facendo quello che da anni si diceva di fare con Silvio: una giornata di pesca in Toscana io, lui e un altro paio di buoni amici. Perdere un pesce è una sconfitta ma si trasforma in una risata quando si è tutti a mollo con le gambe, spalla a spalla e con una canna in mano.
Eravamo a pesca per fare un video e Marco ha fatto i salti mortali per tagliare il labiale delle invocazioni a nostro signore, viceversa noi abbiamo fatto i salti mortali per togliere dall’acqua quattro pesci che hanno concesso la grazia di farsi immortalare. E quando alla fine ci siamo riusciti è stato come ritrovarsi al bar dei ricordi con tante storie da raccontarci, noi, il fiume e la passione che ci unisce.
Talvolta me li riguardo questi video. Talvolta mi soffermo sulle facce, talvolta mi ricordo anche quello che non si vede. Quello che ci siamo detti ma non si sente. E’ un modo strano di lavorare in televisione dove tutto è ovattato e perfetto. E’ un modo strano e tremendamente vero, forse è per questo che quando qualcuno mi chiede del tal posto o della tal lenza gliela racconto come se fosse stato lì con me quel giorno.

Pesci grossi
In un fiume come il Serchio alto la variazione delle condizioni ambientali è repentina e non è detto che ogni pescata si assomigli. Il carattere torrentizio unito alla particolare vicinanza con le montagne lo rendono assai incostante, la variabilità ambientale rende inoltre complessa la scelta dello spot ideale. Decisamente un bell’enigma da risolvere, non meno difficile di un ampio fiume del piano, sicuramente differente e con abilità molto specifiche richieste al pescatore che lo affronta.
Partire con l’idea del cavedano e trovarsi di fronte carpe piuttosto grosse e molto arrabbiate o barbi furiosi richiede per l’appunto grande capacità di adattamento ma anche quella prontezza mentale nel cambiare casacca, approccio e tipo di pesca, verso qualcosa di completamente inaspettato anche dal punto di vista della ricerca dell’abboccata.
Il punto che abbiamo in mente è uno striscio che degrada dolcemente fino a metà fiume sfondando in modo più accentuato, successivamente, per assestarsi a 2,5 metri di profondità a ridosso della sponda opposta. Pescare cavedani richiederebbe stare all’interno della corrente principale a 1 metro e non più corti, rispetto alla sponda opposta. Dovremmo semplicemente cercarli sul fondo o staccati nel loro ambiente naturale: la corrente principale.
La presenza di anfratti, franate e di fatto morte d’acqua sulla sponda opposta rende però più complicata l’individuazione di carpe e barbi. Il cavedano, raramente abita “le morte” di un fiume quando può avere a disposizione ambienti più dinamici e ricchi. La carpa ed il barbo frequentano invece volentieri ambienti dove l’acqua è ferma o rallenta.

Questa è la prima distinzione da fare per tarare il tipo di pesca sul pesce che cerchiamo. Cercare la carpa nella corrente veloce di uno striscio è un azzardo. Non è il tipo di pesce che insegue o aggredisce un esca al volo. Il barbo invece, pur essendo un pesce prevalentemente da corrente, anche forte in taluni casi, può avere momenti nei quali trova più confortevole un ambiente a più scarsa ossigenazione e senza corrente. Questo avviene quando la temperatura dell’acqua si abbassa repentinamente ed il pesce ha già subito il risveglio primaverile.
Quella mattina vedevo in modo piuttosto distinto i cavedani fermi sul fondo. Erano immobili e apatici. Quando la temperatura s’abbassa all’improvviso può succedere e per quel che ho visto in questi anni, tanto vale poggiare la canna e attendere le ore calde per fare un tentativo piuttosto che insistere. Quello che è stato letteralmente in grado di cambiarmi la giornata è stato il salto di un pesce piuttosto grosso nella lanca d’acqua ferma poco a monte del picchetto che mi ero scelto. Non l’ho vista distintamente ma ho sentito e percepito il movimento d’acqua. Tolta la lenza da cavedani ne ho messa una più corta e pesante: consona ad andare a pescare a distanza e restare ferma.
Mentre rido di me stesso nel dovermi ridurre ad usare strategie da pesca alla carpa in canale, in uno di quelli che reputo uno dei più bei fiumi appenninici d’Italia, alla terza fiondata piena il tappo sparisce. Per uno scherzo tra me è Silvio ferro e gli grido: << Sotto!>>.

Marco scorre con la telecamera alle mie spalle, facciamo in tempo a fare giusto due parole sul fatto che sono contento d’aver trovato i pesci e gli spiego che non sono molto convinto di riuscire a tirare in secco quell’arnese con un finale del 10. Finisco di dirglielo e succede l’inevitabile: 1 a 0 per loro e finale da rifare.
Ruvido e ad effetto
Salendo allo 0,11 rimedio ulteriori 4 spaccate. Decido di giocarmi la carta “appoggio” mettendo in campo un altro stratagemma da canale. L’azione di pesca che ho attuato fino a questo momento prevede la pesca esclusiva nella morta d’acqua dove il fondo è 2 metri anziché 2,5 come nello striscio adiacente. Utilizzo di fatto un appoggio nullo o quasi poiché l’inerzia della piombatura mi consente di restare nella pozzanghera senza uscirne. La canna lunga in questo aiuta non poco permettendo di tenere quasi tutto il filo fuori dall’acqua e gestendo quello in bando con dei precisi e continui “mending”.
Decido di cambiare dunque. Provo a tarare comunque il fondale a 2,5 metri e utilizzare un finale del 13. L’idea è quella di partire a pescando nella morta usando una piombatura più lunga ed in appoggio parziale per poi scorrere laddove la corrente dello striscio inizia spingere ma non è mai forte al 100%. Pesco in appoggio di mezzo metro nella morta andando poi a tararmi nel tratto iniziale di passata che è quello che ritengo il più importante.

Se si ha dimestichezza nell’osservazione del comportamento dei pesci si sa che i pesci che stazionano in una morta d’acqua usano questa come se fosse un bar: entrano, si riposano, spazzolano per bene il fondo e ne escono. Questo avviene più volte al giorno per ogni individuo ed a ciclo continuo. Andare ad intercettare gli esemplari che entrano ed escono ci pone nella condizione privilegiata di pescare su un numero maggiore di pesci ed in movimento lento. In pratica l’azione di pesca si svolge fiondando nella morta ed andando a pescare in questa, per poi trascinarsi fuori sulla lieve scia di bigattini che si forma dove la corrente la lambisce, trasportando questi fuori. La lenza deve cambiare posizione molto lentamente: deve quasi fare una lieve passata laddove l’acqua è ferma per entrare nella corrente viva. Per fare questo basta semplicemente mettere giù un po’ di filo in acqua, tra punta e galleggiante, il resto verrà da se.
Lenze flessibili
E’ già difficile mandare giù il fatto di pescare con 2 grammi laddove ne useresti 0,70 e ben aperti. Quel che tuttavia realmente collide con l’imprinting del passatista e che chiama in causa il senso dell’acqua e l’esperienza più della tecnica nella pesca a passata, risiede nel fatto che la lenza pesca in due situazioni completamente differenti nella stessa passata. Si parte poggiando il finale generosamente sul fondo e si finisce lambendo un altro fondale con un finale talvolta staccato, talvolta poggiato. Va da sé che la cosa è piuttosto ambigua ma è anche una strada obbligata per mettersi in condizione di arrivare su più pesci che, di fatto, si rendono più attivi nella zona di passaggio tra la calma della morta d’acqua e la zona ricca di sedimentazione che forma rigiri di corrente adiacente alla corrente viva.
Per fare quanto detto una scalata in pesi e misure è sufficiente ma bisogna costruirla in modo che sia davvero efficacie: vediamo come

Dovrà essere corta poiché pescando con un terminale disteso la segnalazione sarebbe praticamente invisibile su una lenza lunga e morbida. Costruiremo una scalata partendo con un pallino del 10 e salendo di misura 2 alla volta chiudendo la lenza un 40 centimetri circa per la sola piombatura attiva.
Dovrà essere dotata di un finale lungo quanto la lenza. L’appoggio di circa 50 cm permetterà di mettere in terra soltanto i primi 10 centimetri della piombatura. Questo renderà la visualizzazione dell’abboccata rapida compatibilmente con una staticità dell’esca notevole sul falso piano della morta d’acqua.
Il finale dovrà essere piombato. In maniera lieve ovviamente ma inevitabilmente piombato. Un paio di pallini del 10 a dividerlo a metà faranno in modo che quando la lenza verrà trascinata nel rigiro di corrente vi sia quel minimo di stabilità di passata. La lenza corta farà il resto in questo frangente rendendo la presentazione super efficacie.
Useremo un amo di piccole dimensioni dallo spessore consistente. Questo giocherà a nostro favore non unicamente nel recupero ma anche durante la passata. Il peso dell’amo abbastanza rilevante accompagnerà l’esca sul fondo in maniera stabile molto più che utilizzando un leggero e convenzionale amo a paletta. Generalmente una forma Grub o una forma Cristal abbastanza larga fanno al caso nostro in ogni frangente.
Epilogo
A fine giornata il conteggio profuma di goleada da parte del Serchio che travolge il contingente straniero. Personalmente conto 4 pesci presi su 9 incannati. Poteva certamente andare meglio e certamente gli schiaffoni delle carpe e dei barbi di questo posto me li porterò dietro un bel pezzo. Sono sconfitte queste che però lo sono a metà: sono anche l’occasione per mettersi alla prova con qualcosa che sfugge alla normalità di uno schema classico. E lo sono a metà perché, non dite di no, taluni di noi avrebbero chiuso la canna sulla sentenza “oggi i pesci sono fermi”. La pesca a passata per quanto ben eseguita ha proprio questa caratteristica: sembra di dover sempre fare la stessa cosa, far correre un galleggiante in acqua. E’ proprio tra chi “fa correre un galleggiante” e chi invece pesca con la testa che si cela la differenza tra prendere e passare del tempo. Una volta scrissi che “l’interpretazione dell’eccezionale è la differenza tra un pescatore e uno che regge la canna”. Ne sono ancora pienamente convinto.